di Sofia Dell’Aglio, Giuseppe Frascella
Il vento di novembre soffia freddo sulle piazze italiane. Le bandiere si muovono lente e davanti ai monumenti ai caduti si radunano studenti, insegnanti, militari. Ogni anno, da più di un secolo, il 4 novembre torna come un battito regolare della memoria collettiva. Ma oggi, chi sono quelli che ascoltano? Come si avvicinano i giovani a questa data che sembra appartenere a un altro secolo?
Per la Generazione Z, abituata a vivere in tempo reale, la memoria non è più una cerimonia, ma una storia da comprendere. Nelle scuole, nei gruppi online, nei progetti civici, i ragazzi cercano di dare senso a parole come Patria, sacrificio, pace. Non lo fanno con la retorica dei discorsi ufficiali, ma con curiosità e rispetto. Vogliono sapere chi erano quei giovani soldati che un secolo fa partirono da città e villaggi, spesso senza sapere perché.
In una scuola del Nord, una classe ha adottato il monumento del paese: lo puliscono, lo studiano, cercano i nomi incisi sul marmo e ne ricostruiscono le storie. In un liceo del Sud, un gruppo di studenti ha realizzato un podcast sulle lettere dal fronte. È la memoria che si rinnova, viva, fatta di voci e di emozioni.
Eppure, c’è anche un senso di distanza. Molti giovani sentono che quel mondo di trincee e fucili non appartiene più al loro presente. Ma quando ascoltano i racconti dei nonni o vedono le immagini di nuove guerre, capiscono che il 4 novembre non parla solo di passato: parla di scelte e responsabilità, di cosa significa difendere la pace oggi.
Il 4 novembre non è più soltanto il giorno delle Forze Armate. È un ponte tra generazioni. Un giorno in cui i ragazzi imparano che la Storia non è un libro chiuso, ma un racconto che continua e che ognuno — con la propria voce, il proprio gesto — può scrivere un nuovo capitolo.


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